Come l'araba fenice

 

Martina Gioli

Ci sono momenti della vita in cui ci si ‘ritrova’ più o meno inconsapevolmente a toccare un dramma esistenziale. Più o meno inconsapevolmente perché il dramma si interpone sempre in un momento in cui vi è cambiamento, spesso che non si riesce ad affrontare. Talvolta insorge come un macigno, una malattia, a qualsiasi livello. Talvolta rimane celato nell'inquietudine della frenesia. Ma, le cellule del nostro corpo sanno cosa vivono, riconoscono il dramma, già ancor prima che il nostro intelletto ne abbia percezione fisica, e siamo lontani da qualsivoglia consapevolezza. Arriviamo ad un barlume di comprensione solo quando ormai i giochi sono fatti…

Quello che ci attanaglia in maniera latente e costante è la perdita del significato della vita, lo sguazzare in quella sensazione di vuoto interiore e depressione. C’è chi ricorre ai farmaci, chi si impegna in mille attività, chi va da un psicologo, chi si abbandona alla depressione, chi decide di farla finita in un senso fisico, chi psichico. Ributtiamo il nostro malessere esistenziale in attività esterne, come se qualcosa fuori di noi ci potesse salvare da questa inquietudine. 
Dunque, quando si interpone la malattia, ci fermiamo a pensarla come qualcosa di fisico, bio-chimico denaturato, ma essa in primis è ‘una malattia psichica, ovviamente psicosomatica, e soprattutto spirituale. 
Quando si parla di spiritualità, si pensa subito ad un concetto religioso di appartenenza, in realtà a mio avviso ci combina ben poco. Per me il suo significato più profondo sta nell’annusare, percepire, respirare quel ‘qualcosa’ che va oltre i sensi fisici, o la materia tangibile, su cui fondiamo il nostro scopo di esistere. Tutti noi abbiamo un’essenza spirituale, anche a livello embrionale, ma non ne siamo mai veramente in contatto e quando il dramma si presenta travolge lo spirito in un'emotività incontrollata che fa perdere il contatto con il proprio io. 
La malattia è l’espressione fisica di questo dramma non capito. E, se in fondo, di fronte ad essa, ci fermassimo ad ascoltare cosa essa porta, dove siamo, cosa sentiamo interiormente, forse non capiremmo qualcosa di più di noi? Forse non accoglieremmo quel dramma volto ad un cambiamento? Spesso rinneghiamo certi sentire per paura di conoscere quell’inconscio che vogliamo tenere sotterrato da esteriori superficialità. 
Da infermiera, annusando il mio dramma esistenziale, e percependo quotidianamente quello degli altri, nelle fasi più conclamate della malattia, le domande che mi pongo oggi sono: qual è il mio dramma? Riesco con consapevolezza e ascolto ad abbandonarmi al ‘post fata resurgo’ dell’araba fenice?