Memorie di una Persefone

 


Angela Teresa Girolamo

L’ho incontrata tempo fa. Era silenziosa. Amava starsene accucciata ad embrione nel letto, per giorni. Persefone amava il silenzio, la penombra. I luoghi inaccessibili all’esterno. 

Raggiungerla non è stato semplice. Non lo è mai per nessuno. Se ne stava nel bozzolo perché lo sapeva di non avere scorza contro gli urti. La scorza era il suo Ade, che la proteggeva. La tratteneva. La conteneva. La guardava, tutto il tempo, e con gli occhi le diceva “Tu esisti”. La voce che chiamava il suo nome, lei che un nome non l’ha mai avuto.
Le abitudini, i progetti, le ricette: tutto era scandito dallo stare lì, così, delimitato da Ade.
Era un riparo sicuro per far germogliare semi sotto terra, e Persefone era il seme ed era la terra. Nel suo silenzio osservava tutti, ascoltava tutto. E parlava di tutto, nel segreto del suo cuore. Lo sapeva, in quel segreto, che il seme stava soffocando: esiste un tempo per riposare, ed uno per morire a seme e germogliare. Ma per farlo, avrebbe dovuto chiedere al suo signore di darle un nuovo nome, e questo nome non aveva suono.
Allora urlava, Persefone. Così l’ho conosciuta: se sapeste che urli angoscianti da lacerare il cuore più duro. Strepitava a sangue, urlava tra le lacrime, rannicchiata sotto la maniglia di una porta, nell’impossibilità di raggiungerla e aprirla. Non capiva, brillante e sensibile com’era, non si capacitava di come fosse possibile rimanere così a lungo all’inferno senza mai vedere la luce del sole. Lei che era stata gioia, e freschezza. Lei che aveva amato correre nel vento. Amava e odiava il sole: era lontano, oltre il vetro della finestra, dove le strade delle persone normali correvano spensierate sopra gli inferi. Eppure il sole scottava, e la atterriva. Nelle tenebre si stava al caldo, dopo tutto. Si stava al sicuro.
Faceva un sogno, Persefone: toglieva una maschera variopinta e ingombrante, e sotto ce n’era un’altra, e un’altra, un’altra, un’altra ancora. All’infinito, non finivano mai. Si svegliava piena d’angoscia, soffocata da tutte quelle maschere e sotto non sapeva cosa vi fosse. Non aveva idea di cosa volere, lei; sapeva a menadito i desideri degli altri, li coglieva al volo come un genio strofinato via dalla sua lampada, e con la stessa solerzia coatta si ingegnava di esaudirli. Ma non aveva desideri per sè; non sapeva desiderare.
Odiava e amava il suo carceriere/amante. Odiava e amava essere rapita. Lo torturava, povero re del niente, per colpe che lui nemmeno comprendeva; e questa tortura reciproca la devastava di vergogna e indegnità. Detestava guardarsi allo specchio.
Negli inferi spadroneggiava. Era il suo territorio. La sua legge. Creava e parlava attraverso le sue creazioni. Esse le davano pace, ma non era una pace reale.

Un giorno fu ghermita, di nuovo. Un Ade più rapace del precedente era sceso fin nel suo regno e l’aveva abbrancata alla vita. Era quel che stava aspettando, senza saperlo. E si ritrovò sulla superficie, come un neonato sulla soglia dell’utero, e più nessun Ade a darle un nome, a chiamarla regina, e dirle che esisteva. Nessuna abitudine più necessaria, nessun amante a guardia della cella, nessuna cella a cui tornare.
Era una vertigine. Me lo descrisse come una dolorosa vertigine, da piangere a dirotto, coi singulti che scuotono il petto, come al funerale di un parente stretto assai amato, e allo stesso tempo un momento fecondo dove tutta la vita iniziava. Ma con un nuovo nome.
Se lo scelse da sola, e fu un’altra Persefone.
Non più Ade a cui chiedere il consenso, non più le regole degli inferi. Trovò nuove regole, decise nuove abitudini, stabilì cos’era giusto e cosa ingiusto col suo sentire. Con gli occhi del neonato, guardava le cose del mondo di sopra e scoprì che non erano così terribili: potevano far male, doveva metterlo in conto, ma poteva anche salvarsi da esse. Imparò a farlo; imparò che il suo grande cuore assorbiva come una spugna tutto ciò che le era intorno, e allora scelse un intorno che le facesse bene; imparò che la sua anima era grande, più vasta dello specchio di chiunque altro; imparò che mettersi al servizio della Via e chiedere a Dio consiglio nel momento del bisogno era sempre la cosa giusta da fare. Imparò che una regina può ghermirsi da sola, grazie all’Ade del suo spirito resiliente, e regnare su un regno tutto suo.
Il suo nome diventò “membro della nuova famiglia”, e questo le dette la misura di tutto ciò che serviva a costruirsi.
Creò cose nuove; un nuovo destino alla luce del sole. Imparò a ritirarsi nei suoi inferi, e a venirne fuori al momento opportuno. Creò bellezza, e scoprì che dopo tutto doveva essere anche in lei, senza il bisogno che qualcuno lo testimoniasse.
Amò la vita, e il sole. Amò l’amore.
Lo fece col trasporto dell’adolescente indifeso. Si gettò nel fuoco del Lavoro, la fucina delle anime libere, con l’impeto dell’ardente fedele, reggendo la fiamma alta per i compagni di Via che si attardavano confusi. Testimoniò forza e saggezza, apertura e fiducia, amicizia e cura.


L’ho incontrata di nuovo, di recente. Non l’avevo riconosciuta, di primo acchito; è molto cambiata.
E’ cambiato il suo sguardo, e il suo sorriso. Ogni tanto si fa rapire ancora, mi ha confessato.
“Un mio piccolo debole”, mi ha fatto l’occhietto “O magari il mio punto di forza, chissà. Dipende da chi mi faccio rapire”.
Puoi decidere tu? Le ho chiesto sorpresa.
“Certamente” ha riso “Da ingenua credevo dovessi aspettarlo. E in parte è così. Ma, vedi, il punto non è chi ti rapisce, ma con che spirito stai lì a lasciare che accada, se con le braccia penzoloni sulla sua spalla, come un peso morto atterrito, oppure con l’entusiasmo di salire sul suo destriero, insieme a lui. Fa un sacco di differenza.
Vedi, non può rapirmi chiunque: io non lo permetto più. Ascolto la voce e la luce dei loro occhi, e solo se in pace con le mie leggi permetto loro di rapirmi. Ma se lo fanno, so abbandonarmi completamente: tu, con tutte le tue paure e i preconcetti, ci riusciresti?
Se loro mi parlano, io so ascoltare: so fare il silenzio della mente e del cuore, accogliere le loro parole con umiltà, soppesarle, e lasciarle germogliare a fondo. I fiori che daranno sono i miei fiori: prendono il colore della mia anima, ed è un colore intenso, vivo, palpitante, perché io sono feconda.
In ogni caso, non può più essere lo stesso, mai più: io sono colei che è venuta alla luce da sola, per inseguire la Libertà nella sua nuova famiglia. Questo è il mio nome.