Il tabù della morte


Gianluca Mondin

Riflettevo sulla frase scritta da un'amica:
«Quando smetterete di pensarvi immortali forse, e dico forse, cambierà questa situazione.»
Non ho potuto fare a meno di soffermarmi sul ruolo centrale che «l'immortalità» ha assunto in questi nostri tempi bui (credo che lei intendesse qualcosa di diverso da questa mia interpretazione, ma fa poca differenza).
Ho avvertito la sensazione di vivere in una società che ha iniziato a correre — non saprei dire da quanto — verso il mito della «vita eterna». Non mi riferisco a qualcosa di religioso o spirituale: parlo di un progressivo distacco dalla propria dimensione corporea, una negazione della morte, che porta l'uomo alla convinzione che l'unico scopo fondamentale sia vivere il più a lungo possibile.
L'uomo illude sé stesso percependosi come qualcosa che non potrà morire mai; questo si rivela estremamente pericoloso: non solo per i danni che egli può fare nei propri confronti, ma per il fatto che un uomo terrorizzato dalla morte ne diventa inevitabilmente schiavo.
Guardiamoci intorno — e dentro: l'idea della morte è divenuta semplicemente inaccettabile, e tutto ciò che può portare ad essa deve essere controllato ed annientato. Qualsiasi cosa piuttosto che morire, anche a costo di distruggere tutto il resto.
Oggi siamo più interessati al «numero di morti» rispetto al numero di «persone vive» che ogni giorno vengono private della propria dignità. Si pensi alle famiglie ridotte ormai alla fame, a giovani privati del lavoro (e quindi della propria indipendenza), ad anziani isolati e terrorizzati fin dentro le proprie case, a operatori del settore sanitario che vengono stremati da una macchina, quella della «salute», che sembra essere completamente impazzita.
Fintanto che la morte sarà considerata come il «peggiore dei mali» qualsiasi altra cosa diverrà accettabile se promulgata col fine di proteggerci da essa. E non solo: per mantenere viva l'illusione della propria immortalità si rende necessario allontanare e negare qualunque cosa ci ricordi che, in fondo, «polvere eravamo e polvere torneremo ad essere».
Un atteggiamento alternativo è certamente possibile: basti pensare a uomini che hanno sacrificato la propria vita per un ideale che, nella loro scala dei valori, aveva la precedenza rispetto al «rimanere in vita». Chi non conosce il nome di un uomo che si è fatto uccidere piuttosto che rinnegare quei princìpi nei quali egli credeva con tanta fermezza?
Questi uomini non si consideravano certo «immortali»: la morte esisteva, eccome se esisteva, in modo tangibile e concreto; e nonostante ciò essa era secondaria rispetto alla causa fondamentale da difendere.
Se vogliamo spingerci un po' più lontani, pensiamo ad esempio ai Samurai dell'antico Giappone che ricorrevano alla pratica del Seppuku (o harakiri) per riconquistare il proprio onore. Temevano la perdita dei propri valori umani più di quanto temessero la perdita della vita; si potrebbe dire che avessero accettato il ciclo di vita e morte nella sua interezza, che fossero consapevoli della loro mortalità. Chi avrebbe potuto ricattare un Samurai facendo leva sulla sua paura di morire?
Ecco perché, fintanto che l'uomo continuerà a pensarsi immortale, questa condizione sociale — ed individuale — non potrà mai cambiare.
Mi chiedo come sarebbe svegliarsi una mattina in un mondo abitato da uomini pienamente consapevoli del proprio corpo e della propria dimensione fisica. Un mondo in cui si può parlare della morte nello stesso modo in cui si parla della vita. Proviamo ad immaginarci il senso di calore, di fragilità e delicatezza che si potrebbe respirare nell'aria. Per riprendere un'espressione di Seneca: «Noi viviamo come se dovessimo vivere sempre, non riflettiamo mai che siamo esseri fragili».
Può esistere qualcosa di più vivo di questo?