Il ritmo del respiro

Gianluca Mondini

Il mondo continua ad accelerare, i ritmi sono sempre più incalzanti e gli eventi accadono con frequenze sempre più elevate.
Questo, in larga parte, è stato reso possibile da quel graduale processo di astrazione che sta trasformando il nostro modo di vivere, rivoluzionando il modo in cui ci approcciamo alla quotidianità.
Nell'universo di Internet, dei computer e degli smartphone, i tempi si misurano nell'ordine di qualche nanosecondo. Giusto per farsi un'idea, in un singolo minuto ci sono sessanta miliardi di nanosecondi.
La parola d'ordine, oggi, è «efficienza». Un'efficienza dettata da una sempre crescente esigenza di rapidità e ottimizzazione. Tutto deve essere fatto subito, poiché qualcuno, da qualche parte, non è disposto ad aspettare troppo. E come dargli torto? Anche lui deve sottostare al quel folle richiamo alla velocità. Ci mancherebbe altro.
Ogni azione diviene finalizzata a massimizzare il rendimento, sia in termini di risorse economiche che di tempo.
Inutile dire che questo nuovo modo di approcciarsi non è qualcosa che riguarda solo l'ambito lavorativo — magari fosse così.
Giusto per fare un esempio, pensiamo al modo in cui mangiamo. Chi riesce, nella sua quotidianità, a sedersi al tavolino con calma per il piacere di mangiare e di nutrire il corpo? Il fine si è ridotto al posticipare — nel modo più conveniente possibile — lo stimolo della fame. «La fame mi è passata» sembrano dire gli impiegati seduti alla mensa «adesso posso fumarmi la mia sigaretta per poi tornarmene a lavoro».
Oppure pensiamo alle nostre relazioni, che molto spesso consideriamo come chewing gum, gomme da masticare che devono essere gettate a terra non appena perdono un po' di sapore.
«Voglio tutto e lo voglio subito»: questo sembra essere divenuto il mantra della nostra generazione.
Ma, fortunatamente, questa folle corsa alla velocità incontra una resistenza dal basso. Poiché il nostro corpo biologico, il corpo vero, lui esiste secondo i suoi tempi. Qualcuno ogni tanto ci prova a influenzarlo, ma c'è ben poco da fare. Il corpo non sente discorsi, fortunatamente. Lui funziona esattamente come deve funzionare, anzi, come «vuole» funzionare, e forte della sua saggezza poco gli importa se quel giorno ci sono scadenze urgenti da rispettare, se il treno è nuovamente in ritardo o se abbiamo decine di messaggi che attendono una risposta. I suoi cicli hanno durate ben prestabilite che sono rimaste pressoché invariate da millenni a questa parte, e non potrebbe essere altrimenti; egli è soggetto alle immutabili leggi della natura, le leggi della biologia, le leggi del suolo.
Quelle, almeno fino ad oggi, sono rimaste così come sono.
Ed è quindi inevitabile che si venga a creare un qualche tipo di frattura, prima o dopo. Se al di fuori di noi il richiamo alla velocità e all'efficienza è sempre più forte, ciò che siamo realmente, il nostro centro di identità, la base con la quale ci relazioniamo col mondo, è un qualcosa che ha bisogno dei suoi tempi. Il centro mentale può abituarsi piuttosto bene alle velocità astronomiche. Ma tutto il resto, la nostra dimensione più reale, quella ha i suoi ritmi ed esige tassativamente che vengano rispettati.
Io stesso mi trovo in un momento dove la quantità di stimoli che ricevo durante la giornata è di gran lunga superiore a quanto il mio corpo, nella sua interezza, riesca ad elaborare. C'è poco da fare: semplicemente, non ce la fa. Da quando mi sveglio la mattina a quando mi addormento la sera un fiume di sensazioni, informazioni e stimoli di varia natura mi inonda dalla testa ai piedi.
Mi contatta un amico dopo tre giorni che non lo sento, mi chiede: «Come va? Cosa mi racconti?», e la sua domanda mi mette in difficoltà. Perché c'è talmente tanto che dovrei dirgli, talmente tante cose che mi sono successe e che mi hanno scosso, che non solo non ho il tempo di dirgliele, ma addirittura ne stanno emergendo di nuove in quel preciso istante!
Capita di continuo che un evento mi smuova pensieri, emozioni e sensazioni corporee. È chiaro che c'è bisogno di un po' di pazienza affinché tutto questo prenda forma dentro di me e si depositi. Come l'acqua in uno stagno: quando viene smossa richiede quel minimo di tempo che faccia sedimentare i detriti e che la renda nuovamente cristallina.

Ma cosa succede se, nel frattempo, altri due, tre, dieci stimoli arrivano con altrettanta dirompenza? Il risultato, inutile dirlo, è drammaticamente caotico.
E quando l'uomo perde la propria lucidità, quando perde la capacità di rispondere alle domande «chi sono, io?» e «dove sto andando?», i risultati sono catastrofici. Nel momento in cui ci dimentichiamo di noi, dimentichiamo ciò che vogliamo e ciò di cui realmente abbiamo bisogno, sia come individui che come specie umana.
Crisi, malattie fisiche e disturbi psichici, confusione, alienazione, fraintendimenti. Chi più ne ha, più ne metta.
Questa è quella che percepisco come la frattura del nostro tempo, la frattura tra ciò che siamo realmente, coi suoi tempi e i suoi ritmi naturali, e un mondo esteriore che spinge per accelerare ogni cosa.
In questo momento, in me, si sta facendo strada un bisogno impellente.
È un bisogno primario, fondamentale, che viene ancora prima del nutrimento o del riposo. È il bisogno che la mia vita acquisisca il ritmo del mio respiro, e non l'opposto. È il bisogno di ritrovare, nel modo più semplice e naturale possibile, quello spazio nel quale potermi muovere lentamente, in modo consapevole e lucido.
E anche se a volte me ne dimentico, so bene che questo spazio, questa dimensione esteriore quanto interiore, è un qualcosa che spetta di diritto ad ogni essere vivente.