Cose alte e cose basse


 Angela Teresa Girolamo

Ho sempre avuto un anelito alla spiritualità, anche se non lo sapevo. E non è quasi mai stato un desiderio di fuga dalla realtà. Anzi, ogni volta si è manifestato come una fame, un sospirato ritorno, a casa, alle cose che contano davvero. Un sollievo.
Certo le idee preconcette, e ovviamente sbagliate, su cosa sia la spiritualità vera rischiano di non fartela sviluppare mai: da piccola, come ogni bambina del sud, sono stata iniziata al cattolicesimo. E quindi pensi che sia quella la spiritualità, una cosa noiosa di messa, riti, sensi di colpa, cose da ripetere a memoria, catechismo.
Con l’adolescenza e i primi studi di filosofia le cose cominciano a complicarsi: crollano le certezze, mamma e papà non sono più così perfetti come credevi, come Dio. Sì, anche Dio perde la barba bianca e il sorriso da babbo Natale galleggiante sulle nuvole. Al liceo arrivi o a inginocchiarti davanti alla croce come Kierkegaard, oppure (cosa molto più frequente) a rinnegare ogni divinità, e ti sembra che l’unico ad averla detta giusta sia stato Nietzsche: l’unica funzione cattolica che potresti tollerare, e non senza un certo ghigno sarcastico, è il funerale a quel Dio morto.
Ovvio che non fossi nemmeno in grado (né abbastanza umile da ammettere di non) comprendere il vero senso della affermazione di Nietzsche. Né il perché piaccia davvero tanto a quell’età, a certe persone: refugium fallitorum, potremmo chiamarlo. L’insopprimibile bisogno di denigrare e demolire ogni cosa, ne abbiamo parlato tante volte.
Ho cominciato ad annusare cosa fosse la spiritualità quando ho intuito che non è una cosa distante dalla realtà materiale e concreta: quando vedi le cose nettamente separate, sei tu che in qualche modo stai dicendo “Non è possibile che la spiritualità sia qui, intorno a me, dentro di me. É una cosa lontana, un po’ arrogante, irraggiungibile, ridicola persino. Non ha a che fare con le cose che contano: arrivare a fine mese, avere successo, stare in salute, trovare l’amore. Non c’entra con ciò che voglio davvero”.
E invece, intuii un giorno, c’entra tutto, e la chiave per scoprire lo spirituale che è in tutte le cose sei proprio tu: un gruppo di persone, intorno a un tavolo, benediceva il cibo, ringraziando di cuore Madre Terra di cui loro si dichiaravano custodi. C’era un tale silenzio nelle loro parole corali, una tale “religiosità” dell’atteggiamento eretto, solenne. Non stavano dicendo in fretta una frase di rito recitata per abitudine, perché si deve dire punto, e in fretta per la fame. No. Lo stavano dicendo come se soppesassero ogni parola, come se in quel momento nel loro cuore albergasse davvero lo spirito della gratitudine. Presenti con tutti se stessi, coscienti, consapevoli. Provai un brivido: lì, in quel luogo, tra quelle persone c’era qualcosa di ineffabile. Loro sapevano qualcosa che io non riuscivo ad afferrare, e però volevo con tutte le mie forze.
La rivelazione delle rivelazioni fu per me estasiante: che la spiritualità irrompe nel quotidiano ogni volta che ti svegli e ti rendi conto che sei vivo, stai respirando, e si fa largo nel tuo petto il balsamo della gratitudine, della gioia di ciò.
Nonostante i tradimenti, le avversità, tutto ciò che di male ti è stato fatto e per cui sei arrivato a odiare Dio, a chiederti “Perché diavolo mi hai fatto nascere se la vita è questo?”, nonostante tutto… scopri che ne è valsa la pena. Che la sofferenza era solo un modo di arrivare all’essenza delle cose, di risvegliare in te la fame di ciò che conta davvero, una fame che la routine meccanica e le paure rischiano di assopire in un’anestesia alla vita.
Ti ritrovi automa, su strade che non volevi e non hai scelto, e ti chiedi che diavolo ci fai lì. E pur soffrendo come un cane, seguiti a percorrere quella strada, solo perché non ti accorgi che non è l’unica possibile. Poi arriva un calcio nel deretano e finisci dritto disteso a terra: allora ti chiedi un mucchio di cose. Comincia ad assalirti la nausea per tutto ciò che è falso, egoistico, distruttivo. Oppure cominci ad amare la fossa, e rimani lì. Direi che l’umanità si possa dividere in queste due categorie dell’anima.
Cos’è quel momento in cui ti rendi conto che nonostante tutto il male, una perfezione nelle cose esiste, e arrivi a benedire il cambiamento senza il quale non l’avresti scoperto? Non è forse un momento in cui nella tua anima si fa spazio qualcosa e prende corpo lo spirito?
E qual momento in cui ti rendi conto che eri come ipnotizzato, in una tua realtà soggettiva e del tutto distorta, e le nebbie d’improvviso si diradano, i demoni dentro non hanno più motivo di agitarsi: non è forse spiritualità questa pace?
Quando stai facendo il caffè e ti accorgi che, come ogni mattina, anziché svegliarti felice di essere ancora qui a partecipare dello spettacolo con un tuo verso, sei lì a rimuginare frustrato e capriccioso su quanto sia ingiusto doversi alzare e lavorare, scoprendo con un sorrisetto di colpo che razza di idiota tu sia: non è questa spiritualità?
E quando davanti al tuo carnefice, il traditore, colui che con una battutina sarcastica, un gesto, un’espressione, una calunnia, una bastardata, quando davanti a lui riesci a non provare rancore ma un senso di compassione profonda per la sua piccolezza: non è questo essere profondamente spirituali?
Riuscire a fare spazio all’altro, ascoltandolo, capendolo davvero, e a trovare nell’altro quella comprensione, quella condivisione del profondo che cerchi da sempre, e il cuore si spalanca alla gratitudine, la pienezza, la gioia: non è forse questa la strada per la spiritualità?
Trovare insopportabili, anche in modo rabbioso, le menzogne, il falso buonismo, come il falso eroismo, le ingiustizie, le fughe dalla realtà, la vigliaccheria, le manipolazioni, l’individualismo sfrenato sotto falsi slanci di altruismo… e per questo avere fame di verità spietata assoluta autentica: non è questo un anelito di spiritualità?
Mettere il cuore nelle cose che fai, concentrazione e insieme un sano distacco, una naturalezza che non ha paura di fallire, non perché si senta invincibile, ma perché il fallimento non ha importanza, è solo un modo per migliorare e imparare: non è questo vivere spirituale?
Anelo a un mondo in cui ci si possa guardare negli occhi davvero, stabilire relazioni basate sulla fiducia, sul sostegno reciproco, sulla stima profonda e autentica, un mondo dove l’ironia è un modo per alleggerire la tensione e dire “Ma rilassati! Di che ti preoccupi? Tanto moriremo tutti!”. Ho scoperto che questo mondo si può definire spirituale, e non è una fuga dalla realtà, è qualcosa che merito anch’io, come ognuno di noi, semplicemente perché ho scoperto di volerlo davvero.
La vera spiritualità non ti porta altrove, e non è lontana anni luce, non sei un condannato gli inferi solo perché sei tu, e sei nato sbagliato per motivi ignoti. La vera spiritualità ti riporta qui, ti fa affondare totalmente nella realtà materiale presente, ti fa essere ancora di più qui e ora, come non hai mai osato. Ti fa gustare un cibo come se fosse la prima volta e la più intensa di sempre, ti fa guardare le cose come sono, e molte di esse sono meravigliose, ti fa dormire profondamente sonni riposanti quando hai sonno, e lavorare di buona lena e bene quando è giorno. Ti fa amare senza ombre o dubbi quelli che scegli di amare, e ti regala abbondanza e amore in cambio.
Ti calma, ti rilassa, ti sazia finalmente, ti appaga quell’insoddisfazione perenne; ti riempie, ti fa vibrare di commozione pura, di una gioia indescrivibile e piena. Ti suscita dentro immagini, suoni, emozioni che non immaginavi fosse umano provare; ti ispira con la potenza di un tornado. Ti da forza, leggerezza. Ti riconcilia con ciò che hai intorno, perché intorno ci sei sempre tu, anche in ciò che non ti assomiglia.
É un mondo possibile, a portata di mano: basta far irrompere la consapevolezza nell’attimo presente.
In quel momento diventeremo gli occhi di Dio, tutti uguali nell’essenza, distinti solo in superficie.
E adesso ditemi sinceramente: non vorreste anche voi perseguire con tutte le forze tutto questo?