Il nome delle cose

 


Gianluca Mondini


Il linguaggio della psicologia ha la (benedetta) funzione di concettualizzare e formalizzare concetti in altro modo inesprimibili, ma che tuttavia non possono – e forse non potranno mai – essere racchiusi dentro le parole che usiamo per identificarli. Qualunque altra capacità si attribuisca a un linguaggio, come ad esempio il poter circoscrivere dentro di sé una qualche verità riguardante l'uomo e le sue meccaniche o la vita in generale, finisce inevitabilmente per deformare la verità stessa che vuole indicare, rendendola sterile, ingabbiandola, privandola della sua natura, spesso uccidendola. Un po' come la famosa storia del tizio che guarda il dito anziché guardare la luna. Certo, magari quello che indica il cielo ha delle belle mani, però resta sempre una bella differenza tra il guardare il dito di un tizio qualunque e guardare la bellezza della luna.
Esiste una profonda, pesante e grave incompletezza del nostro linguaggio, e questa gravità nasce non tanto dalla parzialità del linguaggio di per sé – che poveraccio, lui fa quello che può – ma per la sua sopravvalutazione, per l'atteggiamento di credere che qualcosa sia compreso non appena gli si è attribuito un nome, un'etichetta. Come quando si sistemano le foto o i documenti sul cellulare.
Ad esempio, spesso si parla di “coscienza” e di “inconscio”, e allora è come se il problema di cosa sia la coscienza – e di come tale problema ci riguardi – sia risolto. L'esperienza mi porta sempre più a percepire come non vi sia alcuna differenza tra queste due astrazioni in termini sostantivi, ma che tale differenziazione sia solamente una concettualizzazione razionale dell'enorme e profonda frattura che esiste tra noi e noi stessi.
Suppongo ci sia bisogno di trovare qualcosa di più ampio delle parole per esprimere questo.
E invece no: «finalmente ora queste due “cose” hanno un nome», si dice, «di che altro c'è bisogno? Ormai si è capito cos'è la coscienza, il mistero è svelato, andiamo avanti occupandoci di qualcosa di più serio...». Come a scuola, quando si è fatto il compito e si passa al capitolo successivo. Questo mi fa male.
Mi fa male perché crea distanza, perché crea muri, distorsioni, fraintendimento.
Incomunicabilità.
Quando si esprime un concetto racchiudendolo in una parola, il concetto lo si perde: resta solo la parola.
E se per un attimo la concettualizzazione del linguaggio venisse messa da parte? O anzi, se si togliesse al linguaggio il merito di poter descrivere ogni cosa, ammettendo l'ingresso nella percezione di qualcosa di indefinito, di incomprensibile, qualcosa privo di confini?

È difficile, spaventoso, è qualcosa a cui nessuno è abituato. È senz'altro più facile ricorrere a incasellamenti predefiniti, a termini, concetti, parole che qualcun altro ha tracciato prima di noi. E allora ecco spuntare come fiori in primavera miriadi di parole (alcune anche impronunciabili), che riempiono tutti gli ambiti conosciuti. Dalla psicologia alla filosofia, all'astrologia alla tarologia, allo studio dei cristalli, alle scienze comportamentali, dall'oroscopo all'argentoscopo, dalla biologia all'algebra dei numeri complessi, fino chissà quale altra "-logia" verrà fuori in futuro.

Certo, i nomi sono fondamentali per comunicare, per poter dire: «hei, sto parlando di questa cosa qui», altrimenti si vivrebbe in un mondo dove tutti biascicano parole incomprensibili, inventate sul momento, e allora sì che non si capirebbe niente. Neppure questo sarebbe bello.
I nomi, così come i concetti, le costruzioni logiche, sono qualcosa di fondamentale per poter comunicare, per poterci esprimere, per poter creare connessioni tra coscienze distinte.
Ma cosa ho dentro di me, quando dico ad alta voce il nome di qualcosa?
E cosa si agita dentro di me, quando chi ho di fronte pronuncia una parola che conosco? Chiude, oppure apre qualcosa? Restringe, oppure amplia una mia percezione? Uccide, oppure dà vita a qualcosa di tangibile, qualcosa di reale, qualcosa più vero?