Mentre tutto è dove deve essere

 


Gianluca Mondini

Mi è difficile spiegarti come io possa sentirmi così vicino a tutto questo, e allo stesso tempo così distaccato da me e da quello che ho intorno.

Non rifiuto certo le cose che mi portano via. I piccoli piaceri, le cazzate, l'amore, il sesso, il lavoro, le curve della strada, i tramonti, la musica, la bellezza delle parole di questi libri. Che ogni cosa prenda il suo posto in questo movimento: mi sta bene, ma che lo faccia ammettendo di non avere un regista né un maestro che la dirige. Questo chiedo: che confessi ora e di fronte a tutti la sua finzione, che mi inondi e mi possieda, sì, ma che si apra il sipario, in quest'attimo, a svelare l'ipocrisia, che vengano accese le luci a mostrare ogni cosa per ciò che è: un sedativo, nient'altro che un anestetico che possa aiutare a dimenticare il passare dei giorni, che convinca che tutto questo ha un senso, che distragga dal pensiero che l'unica preghiera accettabile sia di poter posticipare quanto più a lungo possibile il gran finale col botto, coi parenti e i conoscenti in lutto sotto i fuochi d'artificio, di arrivare a quel giorno con un corpo vecchio ma ancora in salute, nella massima ambizione di poter poi morire senza provare dolore.
E poi, perché no, ambire a una celebrazione in una chiesa piena di tanti bei visi, pubblico pagante avvolto dalle lacrime, migliaia di canne d'organo dorate che suonano qualcosa di solenne, e poi gli applausi e i pianti a riempire il vuoto delle arcate, il vuoto nelle panche e il vuoto nella gente tra le panche. E Dio, che quell’organo suoni così forte da riempire persino l’aria dentro la mia cassa, così da nascondere anche il vuoto di ciò che sono stato. Un’intera vita che finisce così: questo è il senso che mi si chiede in quanto uomo.
 
Ma come posso spiegarti questo disagio, facendo sì che tu non fraintenda ciò che provo?
Come faccio a spiegarti quello che sento verso di te e la nostra vita, e nel frattempo la distanza che c'è tra me, me stesso e il mondo che ho intorno?
Ah, quanto sarebbe diverso se ogni cosa a portata dell’uomo si potesse ridurre a una sterile e semplice insensatezza. Che insolita forma di libertà e leggerezza trovo in questo pensiero. Potrei vivere cullato dal «niente ha un senso», ti direi che non c'è via di scampo, e forse tutto sarebbe più facile. Potrei con questa convinzione abbandonarmi anch'io al ballo, lasciarmi andare senza pensare a niente, sentendo quello che mi si manifesta dentro in ogni attimo, vivendo solamente ogni impulso passeggero. Poi, un giorno, tutto finito: nient’altro.
Sì, se questo fosse stato, avrei potuto vivere diversamente e fare molte cose.
Avrei potuto agitare in aria le mani, come un mago o un uomo di spettacolo, sedurre due, tre o dieci sconosciute, invitarle nel mio letto, stordirle con dei patetici «sei bellissima» e leggere nei loro occhi una favola che m'insegnava che non ero mai stato solo in vita mia.
Avrei potuto, non so, progettare e costruire architetture, realizzare cose magnifiche, e invitare poi mio padre a visitarle insieme a me, potevo dissetarmi con i suoi «come stai» e specchiarmi nei «lui è mio figlio», potevo cercarmi nel suo sguardo o in quello di mia madre, riflettermi in quegli occhi e convincermi che esistesse in me qualcosa di reale.
Avrei potuto trascorrere le mie giornate rinchiuso in un'inutile e sterile gabbia per topi, avvolto da cavi di rame massiccio e silicio, mi sarei potuto perdere in astrazioni matematiche insensate per poi uscire, col sole già tramontato, per spremere quanto di sacro potessi trovare nel reparto di verdura di un supermercato o tra un semaforo e l'altro di un'inutile e volgare città.
Avrei potuto respirare immerso in oceani maledetti dove molti uomini sarebbero annegati, poi scrivere, scrivere ancora, alzarmi stanco dalla scrivania per poi massacrarmi le dita sul mio pianoforte, tentando così di mettere in musica quanto sentivo di dover dire e che non riuscivo a esprimere diversamente.
 
Ora so che non sarebbe bastato. Perché c'è qualcosa che urla da qualche parte, questo ti sto dicendo, chiede senso, ma non so cosa sia né capisco dove si trovi.
 
Senti questa cosa: pochi giorni fa è come se avessi incontrato per la prima volta mio nonno (pochi capelli, mani enormi: il padre di mio padre). Ti ho già parlato di lui, sta diventando sordo e ora quando dico qualcosa mi guarda con un'attenzione che non mi ha mai dato prima, che forse non mi ha dato neppure quando ero piccolo. Mi fissa negli occhi e cerca come di cogliere quello che con le orecchie non riesce più ad afferrare. Mi fa stringere il cuore. Stamattina mi sono svegliato e mi sono sentito come lui, sordo, come se non sentissi più niente di quello che ho intorno. Eppure sento ogni cosa. La mia attenzione è catturata solamente da un grido lontano che viene fuori da un mondo agitato (un mondo che pure può appartenermi, va bene, ma del quale non ho niente e non potrò mai prendere niente). Non so cosa voglia né cosa mi stia suggerendo questo grido, antico e pur sempre pieno di qualcosa di nuovo, sento che c'è, e in quella voce io sì, trovo qualcosa che porta in sé come una croce o un fuoco. Per questo mi vedi lontano: sto solo cercando di ascoltare le parole di quel grido.
 
E sto cercando le parole giuste per spiegarti questo, perché non voglio che tu fraintenda: come posso farti capire che mentre sono altrove sono proprio qui con te? Come posso parlarti dello stupore che provo nel guardarti negli occhi, di ciò che vedo quando ti guardo, delle cazzate che scrivo sotto altro nome quando cerco di dirti quello che non riesco a dirti a voce, io, nella mia codardia di uomo, mentre poi guardo dritto, guardo fuori, coi tuoi «non mi dà attenzioni» che ti inondano i pensieri, convinta forse davvero che io non ci sia, e che ti escono poi dalle espressioni del viso che mi fanno sorridere, mentre io cerco di ascoltare qualcosa che sento e che non so né cosa né dove sia, mentre lo cerco con un cuore spalancato e vuoto, con un cuore che tuttavia è pieno di te?
 
Cerco solo di dirti che mi sono guardato intorno, una mattina, ed è stato come se non ci fosse stato più niente: ma era tutto lì, dove doveva essere. C’è qualcosa di insolitamente doloroso in questo. Adesso, che tu ci sia o non ci sia, che loro siano con me o non ci siano, che ogni cosa sia sbagliata o che sia al suo posto, ormai non fa più alcuna differenza: oggi sono rientrato a casa ed ero un estraneo.
 
E mi è così insopportabilmente difficile spiegarti come io possa sentirmi così vicino a tutto questo, e allo stesso tempo così distaccato da me e da quello che ho intorno. Sappi tuttavia che sono qui: sto solamente cercando qualcosa che non trovo.
Qualcosa di cui, proprio come ne ho di te, ora ho la nostalgia.