Nessuno tocchi niente

 


Gianluca Mondini

 

Le espressioni «io lavoro su di me» e «tutto sommato le cose mi vanno bene così» difficilmente possono essere accostate senza dar vita a un ossimoro. Questo perché nessuno mai si sognerebbe di cambiare qualcosa che funziona bene, e si dovrebbe esser matti a pensarla diversamente. Qualsiasi trasformazione, è chiaro, nasce da un disagio: si è disposti a cambiare solamente quello che non ci piace.

«Lavorare su di sé», comunque lo si voglia intendere, significa cambiare qualcosa. Modo di pensare, modo di vivere, modo di sentire, abitudini, atteggiamenti... Quali di queste cose? Non so, forse alcune, forse tutte, ma di certo si può immaginare che qualcuno che «lavora», di qualunque natura questo lavoro sia, compia effettivamente qualcosa.

«Ho trovato lavoro in una grande azienda»
«Ah sì? E cosa fate?»
«Nulla. Ci troviamo la mattina alle 8:30, ragioniamo un po' sul da farsi e poi niente, aspettiamo l'ora di fine turno senza far nulla».

Non altrettanto assurda risulta la posizione di qualcuno che «lavora su di sé» ma che, concretamente, non è disposto a fare o cambiare niente: è qualcosa che passa inosservato. Dove sta allora la differenza? Per onestà intellettuale bisogna convenire su questo: «lavorare su di sé» è un ottimo stratagemma per combattere l'immagine di ordinarietà che abbiamo di noi stessi. Gli uomini così «normali», adattati, un po' ci repellono. Li snobbiamo. «Noi non siamo così», ci si dice. E così le meditazioni, lo Yoga sul mare e la lettura dei registri akashici assieme a tutto il resto diventano l'alibi ideale del perfetto «uomo in cammino». Non sorprende quindi che le attività «olistiche», «transpersonali», «spirituali» (comunque le si vogliano chiamare) siano diventate in larga parte qualcosa di volgare, nel senso di essere a disposizione e consumo del volgo, insoddisfatto (ma che in fondo gli va anche bene così) e desideroso di cambiare (senza però cambiare niente). L'autenticità e l'onestà troppo spesso lasciano spazio ad una malcelata ipocrisia che sembra dire: «va bene lavorare su di me, ma voglio però lasciare tutto com'è».

Si può anche partire da un disagio reale, da un'insoddisfazione, una dolorosa e incomprensibile inquietudine. Forse non ci si sente poi così tanto a nostro agio nel mondo, pieno di gente indaffarata, stanca, distratta, insensibile, così veloce, così presa dalle sue cose. Si sente di non essere parte di «quel mondo», di desiderare qualcosa di diverso per noi, e forse di qualcosa di diverso ne abbiamo davvero bisogno. Ci si può sentire lontani dagli altri, lontani da noi stessi, e così può capitare che si inizi un qualche tipo di lavoro. E può pure accadere che un cambiamento arrivi (e anzi, lo dico per esperienza personale: eccome se quel cambiamento arriva). Si ha la prova che il «lavoro su di sé» funziona. Cosa lo certifica? Certe volte l'attenuazione del disagio iniziale: magari ci si sveglia una mattina, dopo anni in cui poteva andarci bene anche morire nel sonno, e si sente che l'essere ancora vivi in fondo non è qualcosa di così spiacevole. Altre volte il certificato arriva da una nuova e sorprendente capacità di conquistare quelle cose del mondo che prima erano inarrivabili, e che ora sembrano invece diventate totalmente a portata di mano.

Si diviene quindi più o meno capaci di «amare e lavorare», per scomodare una spesso citata definizione freudiana di «cosa sia la salute». La vita, tutto sommato, inizia ad andarci bene. Il mondo appare ancora assurdo certe volte, si è comunque insoddisfatti in momenti specifici, presi dalle dinamiche, identificati, preda delle proiezioni (e da tanti altri bei termini che si è imparato a padroneggiare) e anche altro... però insomma: devo pensare a casa mia, ora. Al mutuo, all'affitto, alla ristrutturazione, alla camera dei bambini, all'impianto stereo per guardarmi i film (spirituali, s'intende). Ho delle responsabilità di uomo/donna/padre/madre/fidanzato/fidanzata alle quali non posso venir meno (e che, magicamente, ora sono diventate quasi incompatibili con tutto il resto). È sufficiente a volte la compagnia di una bella ragazza, o di un ragazzo premuroso, a farci dire che tutto sommato, in fin dei conti, a vederla bene, se proprio si devono dire le cose, in effetti, al di là di qualche litigio... non si sta poi così male.

Che fine fa il «lavoro su di sé»? «È ancora lì, ci mancherebbe altro. Uno mica smette mai di lavorare su di sé. Ti pare?». Ma è evidente che qualcosa è cambiato. Il lavoro su di sé si riduce ad un rituale da salottino borghese: un passatempo rilegato al fine settimana, al limite anche al mercoledì sera, sempre che uno possa, dopo la palestra e le riunioni a scuola. Quel minimo di presenza di sé e di capacità di osservare le cose, così come una certa padronanza e scioltezza nel fare le cose, quelle restano (e guai a chi prova a toccare dei così validi strumenti per mantenere l'equilibrio), così come magari restano pure le letture, i film e le meditazioni. Ma in fondo, e questo nell'intimo lo si riconosce, non si è più disposti a cambiare niente. Si lavora per mantenere l'adattamento, per fare manutenzione, come quando non serve più usare la falce e la motosega e si passa a un semplice paio di forbici da potatura per tenere bello il giardino davanti casa.

Per alcuni va bene così, e può darsi che vada davvero bene così. Siamo differenti, e ciascuno ambisce a qualcosa di diverso. E poi, voglio dire, si lavora per noi, per la nostra essenza (o comunque la si voglia chiamare), mica per rendere felici mamma, babbo o i nostri amici (o almeno: in teoria). Ma se per alcuni l'adattamento può essere sufficiente, per altri semplicemente non lo è: c'è poco da fare. E allora lì nascono i dolori. Perché nel nostro intimo rimaniamo pur sempre insoddisfatti, e i sogni, le immagini, i pensieri sfuggenti, tutto ci lascia intendere che in fondo l'adattamento ci sta un pochino stretto. Viene fuori un conflitto che talvolta può essere bello rognoso, perché se prima si sfondavano muri crollati e si abbattevano piante secche, ora c'è da domandarsi quali di quelle siepi ben curate richiedano magari di essere un po' sfrondate, se non addirittura sbarbate per lasciar spazio a qualcos'altro. E spesso questo può essere realmente fastidioso, al punto che si può pure rischiare di far finta di niente, di ignorare noi stessi così come i nostri bisogni più intimi, cadendo nel sonno con la dolce convinzione che in fondo tutto ci vada bene così. Si compie un tradimento verso noi stessi, e questo certe volte lo sentiamo, ma sembra ora più conveniente far finta di nulla.

In una condizione del genere, drammatica sotto certe lenti, se alla fine i bisogni dell'essenza riusciranno a farsi strada nella personalità, ora così rafforzata e timorata dal desiderio di cambiamento, oppure se il sonno e l'adattamento prenderanno il sopravvento, questo dubito che qualcuno possa dirlo a priori. Sta di fatto che non si ha mai così tanto bisogno di coraggio come quando, purtroppo o per fortuna, si inizia a sentire di star bene. Cioè come quando si inizia ad avere davvero, e per la prima volta, qualcosa di conquistato che potrebbe andare perso nell'andare incontro a noi stessi.