Il cuore di Elisa

Gianluca Mondini

 

Sul marciapiede. Passo lento ma deciso, capelli neri raccolti lungo la schiena, poi un paio d'occhi d'un colore così chiaro da far risaltare quel volto in mezzo ad altri mille: non c'erano dubbi che fosse lei. Elisa camminava con due bambini al suo fianco, il che mi strappò un sorriso sorpreso: alla fine aveva davvero avuto dei figli. Il più piccolo le stava aggrappato ai jeans, sotto la borsa, mentre il grandicello camminava goffo, davanti al fratellino e alla mamma, come ad aprire la strada.

«Francesco, non ti allontanare! Vieni qui!».
«Ormai è adulto, lasciagli fare la sua vita», le dissi ridendo.
Si voltò infastidita, poi mi vide e mi riconobbe, spalancò gli occhi e mi chiamò per nome, sorpresa. Era da una decina d'anni che non ci vedevamo. Ci abbracciammo.
«Come stai, Elisa?».
Un paio di baci sulla guancia, poi si sistemò i capelli e si ricompose.
«Vedo che sei in compagnia», osservai guardando i bambini. Sorrise soddisfatta.
«Sì, visto? Lui è Francesco», indicando il più grande, «mentre lui è Leo», spingendo con la mano il piccoletto. Leonardo, timido, voleva rimanere nascosto dietro la gamba della mamma.
Elisa mi guardò sorridendo, poi rivolgendosi ai bambini mi introdusse.
«Questo tato è un amico della mamma, di quando era giovane», sollevando lo sguardo a cercare il mio.
I piccoli rimasero in silenzio e accennarono un sorriso imbarazzato, come sono soliti fare i bambini.
Scambiammo un po' di parole sul come andavano le cose, su cosa ne era stato delle nostre vite. Mi disse di essersi sposata tre anni prima e che era andata a convivere con Alessandro e il piccolo Francesco (Leonardo sarebbe nato di lì a poco), in una villetta in fondo a Viale Quinto.
«Intendi la villetta quella che si vede sulla destra, dal cavalcavia della stazione?».
«Sì, l'hai presente?».
L'avevo vista qualche volta, passando di lì. Gran bella casa, non sapevo fosse sua. A pensarci, non l'avrei mai immaginata lì. Elisa, a vivere in mezzo a tutti quei palazzi? Mi ricordo di una volta, eravamo da me, in cui mi mostrò la fotografia di una casa su cui fantasticava: una specie di baita in legno, avvolta dagli alberi. La ricordo perché mi rimase impresso quel senso di intimità e silenzio che si respirava anche solo nel guardarla. Se non sbaglio s'intravedeva anche un laghetto sullo sfondo (o forse voglio solo ricordarcelo io). Differente, senza alcun dubbio, da quella villetta in cui abitava adesso (pur essendo una bellissima casa, c'è da dirlo) immersa nel cuore della città.

Quanto a Elisa, era diversa dall'ultima volta. La ragazza scherzosa e infervorata che conoscevo un tempo aveva lasciato spazio a una donna tutta d'un pezzo, che appariva alla mano e sorridente, sì, ma tendenzialmente di espressione seria, forse un po' indurita.
«Finalmente una donna con la testa sulle spalle» avrebbe detto Carla, sua madre. Da come parlava s'intuiva come la sua vita ruotasse attorno ad una scrivania; dopo anni di sacrifici si era finalmente conquistata un posto come direttrice della sede locale della Banca dei Palazzi. Poi i figli, chiaramente, e il marito. Insomma, Elisa era una donna arrivata. Cos'altro avrebbe potuto chiedere alla vita? Forse qualche nipotino, un giorno, ma era ancora presto per pensarci.

Al di là del lavoro, del matrimonio e del marito, le chiesi riguardo al resto. Mi venne a mente il libro che stava scrivendo (a volte è sorprendente constatare ciò che la mente va a ripescare) e le accennai qualcosa a riguardo. Si sorprese che lo ricordassi ancora, credo in maniera sincera, poi attaccò con la prevedibile retorica che mi avrebbe fatto desistere dal toccare quel tasto.
«Sai com'è, c'è stata la magistrale, poi il lavoro. Uno rimanda sempre, sperando di trovare un po' di tempo... Poi beh, la vita cambia e ti mette di fronte a certe responsabilità», facendo implicitamente riferimento ai bambini. «E così certe cose passano in secondo piano. Chissà, tra qualche anno se mi libero un po' magari mi metto di nuovo a scrivere».
Quest'ultima frase mi suonò vuota, inutile, lontana. O forse ero io, in quel momento, ad essere lontano? Non so. Intanto il telefono le squillava ripetutamente. Contai una decina di suoni di notifiche di vario tipo. Era immersa nel mondo fuori di sé.

* * *

Dieci anni prima. Io ed Elisa siamo in auto, da soli, fermi lungo strada. È sera e intorno non c'è un'anima, solo silenzio. Fa piuttosto freddo fuori: grazie al cielo abbiamo i sedili posteriori di questa sedici valvole giapponese che ci scaldano un po'. Non è molto, forse, ma ci sembra di avere tutto. Comunque, anche se avesse fatto freddo, non sarebbe stato così importante: avremmo semplicemente fatto qualche battuta sul morire congelati o qualcosa del genere. Lei inizia a raccontarmi una storia, mi parla ininterrottamente per più di dieci minuti. Poi mi dice che è la trama di un libro che sta scrivendo. Ne è innamorata. Anche a me piace scrivere, ma non i romanzi. Ad Elisa invece i romanzi sono sempre piaciuti. E riprende con la storia, poi ci mette nel mezzo qualcosa di strano, un dettaglio assurdo, solo per vedere se reagisco, se davvero la sto ascoltando con l'attenzione che pretende. Ci mettiamo a ridere. Lei non lo sa, ma potrebbe parlarmi di qualsiasi cosa, l'ascolterei comunque. Non perché è Elisa, ma per il modo in cui parla. Sembra sul punto di sbocciare da un momento all'altro.

* * *

L'ennesima notifica, – riconobbi il suono di Facebook – mi riportò nel presente. La guardavo: ormai distante, così estranea. Interruppe il mio sguardo scusandosi e dicendomi che era di fretta perché Laura (sua suocera) la stava aspettando per comprare qualcosa in centro, insieme ai bambini. Sfilò distrattamente da una tasca le chiavi di una Mini mentre il telefono continuava a suonarle nella borsa. Tanto era insopportabile quel rumore che dovetti possedermi dal non prendere in mano quell'aggeggio e lanciarlo giù, nel canale.
«Senti, ti contatto online», mi disse mentre rovistava in borsa alla ricerca di qualcosa, credo appunto del cellulare, «così ci vediamo con più calma e ti racconto un po' di cose. Sai che Alex l'anno scorso è stato in Siria? L'hanno promosso dopo il servizio quello... Lorenzo, vieni qui! Il servizio quello sul traffico di droga. Ha rischiato molto, sai? L'hanno richiamato dalla sede, ha avuto pure problemi col capo. Ti sembra una cosa normale? Comunque poi ti racconto».
«Vai, poi ci organizziamo», le risposi con un accenno di sorriso.

Nel cercare di voler bene a qualcuno, a volte si capisce che si deve mentire. O forse il bene non c'entra, e la mia fu solamente codardia. So solo che parlare con lei non mi interessava. Anzi, mi innervosiva. Sentii un dolore allo stomaco, e ricordai di quella volta in cui pensai che a certe persone si è come chiamati a dire la verità. Nel senso che c'è qualcosa, in loro, che ci porta a voler mostrare la parte più autentica che conosciamo di noi stessi. È una cosa naturale. Una volta lo pensai anche di Elisa. Ora ero lì, a rivolgerle una gentilezza, un «va bene» di circostanza, che sottendeva altro, che implicitamente lasciava intendere che se anche non ci fossimo più visti sarebbe andato bene così.

Ci salutammo, mentre lei era già da qualche altra parte, chissà dove. Lo si capiva dallo sguardo. Forse, pensai, dentro sé stava già preparando qualche brillante argomento di conversazione con la suocera. L'Elisa che conoscevo si sarebbe messa a ridere di una cosa del genere. Un paio di baci, un saluto a lei e ai bambini, poi ci congedammo con uno scambio di sguardi, estranei e lontani, pensando tra me e me quanto avrei preferito non conversare più con lei.

No, non avrei neppure voluto incontrarla, quel giorno. Semplicemente, avrei preferito custodirla così, dentro di me, come la ragazza innamorata che avevo conosciuto anni prima. Innamorata di chi, o di cosa? Non so. Ma c'era qualcosa di così vivo dentro di lei, neppure so dire cosa. Qualunque cosa fosse, questo era certo, ora sembrava essersene andato. Mi chiesi se mai, durante le sue giornate veloci e distratte, se mai avesse un momento per cercare quel «qualcosa» che un tempo le brillava negli occhi, e che – seppur alla cieca – inseguiva, perché era inquieta e agitata da una sete così dolce, perché Elisa cercava qualcosa. Una parte di lei forse lo ricordava. O magari no, non era più così. Forse l'aveva dimenticato.

Mi allontanai, assorto dentro me stesso, mentre la sua voce e quella dei bambini svanivano nella confusione della città.
«Dov'è finito il tuo cuore?», pensai.