Non era l'amore dei film

 

 Gianluca Mondini
 
 
Giovedì scorso la tua Ginevra mi ha consegnato la scatola che avevi deciso di lasciarmi. È da quando l'ho aperta che non faccio altro che pensare al tempo trascorso insieme e alla quantità di cose che ti interessavano e che mi descrivevi fin nei minimi particolari. Non sapevo perché tu parlassi così e cosa intendessi dire, confesso che non ti capivo fino in fondo. E poi odiavo un po' i tuoi modi, le tue bugie, i silenzi, il modo in cui disapprovavi cose che a me sembravano importanti. Eppure, al di là di tutto questo, una parte di me restava convinta che ci fosse un'ampiezza differente nella tua visione del mondo, e che forse era proprio per questo che a volte sorridevi e insieme sentivi una sorta di dolore (o almeno, così a me pareva guardandoti). Alfredo, perdonami per le scemenze e le banalità che ti scrivo, ma questo tu lo sai: ti guardavo con gli occhi di un bambino.

Tornando alla scatola, mentre l'aprivo il cuore mi scoppiava. Ho preso le foto che c'erano dentro, le ho guardate una a una, e ti sentivo in ciascuna di esse… era come se potessero parlare. Io, così piccolo al tuo fianco e con quel faccino da bravo bambino, e tu che sembravi un gigante (e che mi incutevi pure un po' di timore). Mai prima delle semplici fotografie mi erano sembrate così vive. A un certo punto mi è pure parso di sentire la tua voce. Buffo, no? Poi ho chiuso gli occhi per sentirla meglio, e d'un tratto era come se ti avessi di fronte. Così l'ho capito, ho capito cosa fosse l'amore a cui accennavi senza mai parlare direttamente, e che volevi io ascoltassi in ogni momento. Ne erano intrise le tue parole, i tuoi gesti, il modo di comportarti… L'ho capito d'un tratto, emerso come un lampo dallo sguardo che avevi nelle foto, e ho ricollegato tutto quanto.

Ho capito che quell'amore che esprimevi non aveva nulla a che fare con l'amore che si può provare verso una bella donna (ti ricordi della sbandata che presi per Eleonora, vero?), col matrimonio, oppure coi figli o coi nipoti.
Ho capito che non era qualcosa che può essere indirizzato in maniera esclusiva verso una persona, ma che è qualcosa che è parte di noi oppure non lo è, senza dipendere da chi abbiamo vicino.
Ho capito che in certi momenti posso sentire l'affetto, posso innamorarmi, e che questo è qualcosa da vivere con presenza, sì, ma che quell'amore che esprimevi era un'altra cosa, di un'altra natura. Qualunque cosa fosse, non era certo l'«amore» per come lo si intende nei romanzi o nei film. Ora l'ho capito, Alfredo. Forse neppure userò più quella parola, «amore», così come non la usavi tu, perché chi ascolta non possa fraintendere quello che dico (e tu già lo sai bene, è molto difficile intendersi così).

Sei stato per me la testimonianza viva di qualcosa di raro, e qualunque cosa fosse questo «qualcosa», ti traboccava da dentro verso il fuori, e poi ancora da fuori verso l'interno, al di là dei tuoi modi burberi e imperfetti. Questo «qualcosa» non era un sentimento o un valore morale, Alfredo. Sai, qui la gente pensa che «buono» sia chi sorride sempre, chi saluta in maniera garbata, chi dice sempre la verità, chi è sempre pronto a soddisfare i bisogni e i capricci dell'altro.

Tu Alfredo non eri nessuna di queste cose, eppure era come se ogni tuo gesto mi insegnasse qualcosa di ben più prezioso, mi aiutasse ad aprire gli occhi su me stesso e sul mondo d'intorno. Mi insegnavi a crescere. Ti sei preso cura di quello che portavo dentro, nelle mie profondità, qualcosa che nessuno (neppure io) sapeva esistere. Grazie, Alfredo. Se esiste un significato per la parola «amore», allora tale significato non può essere altro che quello che hai da sempre cercato di mostrarmi tu.